lunedì 27 giugno 2011

Archeologia

[...]
Mostrami il tuo nulla
che ti sei lasciato dietro
e ne farò un bosco e un'autostrada
un aeroporto, bassezza, tenerezza
e la casa perduta.

Mostrami la tua poesiola
e ti dirò perché
non fu scritta né prima né dopo.

Ah, no, mi fraintendi.
Riprenditi quel ridicolo foglio
scribacchiato.
A me serve soltanto
il tuo strato di terra
e l'odore di bruciato
evaporato dalla notte dei tempi.

[Archeologia, Gente sul ponte, W. SZYMBORSKA)

sabato 25 giugno 2011

La crepa nel tempo

L’odore del caffè al mattino presto che inonda tutta la casa mi fa sempre lo stesso effetto: vorrei riprendere a dormire e restare a letto per ore ed ore. E’ come quando fuori piove che lo scrosciare dell’acqua risuona come una ninna nanna che ti accompagna nel torpore dolce del sonno. Mi strofino la guancia tante volte sul cuscino, mi cullo un po’ dondolandomi col sedere come fanno i neonati... respiro il mio odore impresso nelle lenzuola. Allungo per un attimo una gamba nell’altra metà del letto: è fredda. Ritorno nella mia. Annuso il caldo buono della notte appena trascorsa.

Mi piace, io mi piaccio.

Resterei così ancora per molto, ma è ora di andare.

Lui sarà già lontano. Mi ha preparato il caffè ed è sparito, come gli avevo chiesto, portando con sé anche Nanà, la micia che da anni abita con noi la nostra casa.

Resto ancora per un attimo e mi ammanto di quel fruscio leggerissimo che fa la federa sotto l’orecchio.


Il caffè è ormai tiepido, come piace a me. Lo bevo sul terrazzo ancora non inondato dal sole. C’è una bell’aria la mattina presto e ancora molto silenzio, rotto solo da cinguettii, lontani e vicini, che si alternano.

Mi lego i capelli in una coda bassa, e, davanti allo specchio, mi stupisco delle fossette che mi si creano ai lati della bocca e sulle guance. Non me le ricordavo più. Da quanto tempo non mi guardo più allo specchio? Ritrovo il mio sorriso che, mi pare, conservi ancora un che di fanciullesco e vivo. Di chi ha trovato la chiave per non soffrire tanto, dice Giovanni e forse è vero. Forse no.

Continuo a guardarmi anche con la pelle verde dovuta ai fanghi del mar morto che spalmo con cura sul viso, trascurando gli occhi. Mi si crea dopo qualche minuto una maschera di argilla piena di rughe. Sarò così fra qualche anno?


Ci vuole anche un bagno rilassante con i sali e, mentre lo faccio, ascolto un cd dei radiodervish che non ascoltavo da anni. E’ ascensionale, secondo me.

Mi asciugo con cura e mi spalmo una crema al tè nero, cosa che non faccio spesso.

E’ quasi tutto pronto. Io sono quasi pronto.

Metto tutto nello zaino: un taccuino con la copertina di pelle nera e le pagine senza righi di carta riciclata, due penne, tre libri di prosa e due di poesia, la macchina fotografica e una bottiglia d’acqua.

Vado.

Percorro a piedi un sentiero che da casa mia, tagliando tutto il paese, sale su per le pendici del monte su cui è arroccato e, attraverso il bosco che mano mano dirada, mi porta dopo tre ore di cammino in cima.

Mi si apre davanti agli occhi una piana erbosa sterminata che mi porta dritto diritto in una casa di pietra e legno che uso più o meno una volta all’anno e solo quando ho voglia di stare un po’ da solo. Un po’ con me.

Al centro di essa, davanti ad un’enorme vetrata, c’è un letto immenso, che di notte guarda le stelle e di giorno gode di tutto il sole che in montagna è capace di arrivare. E adesso ce n’è tanto. Un letto non è mai un posto qualunque dove poggiare le membra e io l’ho sempre vissuto come una fenditura nel tempo, un passaggio segreto verso un altrove alla cui estremità ci sono io di nuovo. Sono io stesso quell’altrove: una crepa, negli istanti pieni dell’esistenza. E lì, in una piega piccola piccola al pari di un soffio, io mi accomodo e inizio la mia oziosa ricerca.

Racconto inedito di Maria Luigia Longo


giovedì 23 giugno 2011

El silencio



    [...]
    *
el silencio
yo me uno al silencio
yo me he unido al silencio
y me dejo hacer
me dejo beber
me dejo decir


    *
il silenzio
io mi unisco al silenzio
io mi sono unita al silenzio
e mi lascio fare
e mi lascio bere
e mi lascio dire
[...]
(Alejandra Pizarnik)

scrivere.







«Se scrivere era vivere
Vissuto fu lo scritto
Cercavo appena un'isola di spazio
Un silenzio un sorriso intorno a me
E blando vino e modica allegria
Un quieto conversare a lume spento
Esserne perdonato non sapendo
Il mio delitto»

 Giovanni Giudici (1924-2011), "Il mio delitto" (da "Quanto spera di campare di Giovanni", 1993)

mercoledì 22 giugno 2011

Gli incontri


forse tutto è iniziato da qui
da Stati d'animo: quello che resta
del 1994

Raccoglieva istanti
palpiti ingenui
di una appena diciottenne
con il vezzo di scrivere.

E poi
la vita irrompe
va avanti
ma la scrittura resta

rimane
e scava

RENDEZ VOUS - ORE 21,30


STASERA VI ASPETTO QUI
DALLE 21.30
PER CHIACCHIERARE UN PO'!
SAREMO IN TANTI?

ancora dalla carta stampata...


Questo articolo di Salvatore Lucente mi era proprio piaciuto!
E' inserito nella foto gallery... buona lettura!

martedì 21 giugno 2011

un po' di rassegna stampa...

Per leggere bene gli articoli (qui solo come immagini)
basta andare nella foto gallery.
A domani, per il nostro primo rendez vous!


domenica 19 giugno 2011

Evento/raduno



Come promesso, per festeggiare le ormai 1251 visite in pochissimi giorni vi propongo una sorta di evento
un appuntamento on line 

tutti insieme MERCOLEDI 22 GIUGNO dalle ore 21,30.

Sarò on line per domande, curiosità, incontri, critiche e qualsiasi cosa vi passi per la testa!
Un unico post con un botta e risposta da parte di tutti.
Un unico post come intreccio di parole.

Vi aspetto mercoledì alle 21,30 in punto!

buone letture a tutti!
m.l. 

sabato 18 giugno 2011

Ai lettori / visitatori del blog




A un mese circa dall'apertura di questo blog, con sorpresa constato la presenza ogni giorno di decine e decine di visitatori e lettori. Per alcuni, ho scoperto, è una visita quotidiana, come quando si va a incontrare un buon amico; per altri, invece, è come una pausa tutta per sé, lontano da tutto. Alcuni di voi li conosco già, altri invece sono amici virtuali e non so neanche chi siano. Mi rende felice potervi conoscere meglio, anche chi conoscevo già. La scrittura e la lettura creano un punto di incontro che spesso è grande quanto un mondo e ha una dimensione tutta sua. E un tempo suo proprio. E a me col tempo piace giocarci, scandendolo con le parole.

I commenti lasciati sono ancora pochi, ma mi arrivano in altro modo. Forse non lasciate un commento per timidezza e questo un po' me l'aspettavo: i miei lettori sono timidi. E forse, per questo, mi assomigliano.
Ma cercate di farmeli arrivare comunque perché mi saranno utili e mi daranno il peso e l'ampiezza della mia scrittura. In fondo ho aperto il blog proprio per questo: per sentire l'eco delle mie parole. E per ora quello che mi ritorna ha molto di quello che da me è partito. Grazie!

Ho imparato ad ascoltare l'eco delle mie parole nella varie presentazioni e reading che in quest'ultimo anno si sono succedute e che hanno visto presenti sempre tante persone con cui sono poi rimasta in contatto e che probabilmente visitano anche il blog. Bene, ben ritrovati!

Spesso mi arrivano complimenti anche per le foto e per questo non posso non ringraziare la persona che me le ha donate (che però preferisce rimanere nell'anonimato!), perché impreziosisce gli scritti e in qualche modo li completa. Grazie!

Buona lettura a tutti e a presto!
m.l.


venerdì 17 giugno 2011

Silenzi - Parte III

-No, niente di diverso dal solito. Ho parlato con la neuropsichiatra ed è molto soddisfatta dei risultati di Enza. Anche il suo rendimento scolastico è quasi sufficiente-.
Un sorriso della madre mi fece sbottare: - Sì, ma Enza non sta bene. Non possiamo accontentarci di questi piccoli miglioramenti. Lei si accontenta?-
La madre finalmente si tolse quel sorriso mesto e spaurito dalla faccia. Non rispose nulla.
- Cos'ha avuto Enza? Qui nessuno ne parla. La neuropsichiatra mi ha parlato di una violenza.-
S'irrigidì e poi chinò lo sguardo per qualche attimo. Mi sporsi verso di lei e, quasi bisbigliando, come se parlassi ad Enza, le chiesi di raccontarmi questa storia. Mi confermò che Enza all'età di cinque anni aveva subìto delle attenzioni particolari (non pronunciò né la parola violenzasessuale) da un bidello della sua scuola. E che per reazione, lentamente prima e poi di botto, si era trincerata nel suo silenzio.
-A casa parla?- chiesi.
-Sì, con me parla abbastanza tranquillamente anche se a voce bassa. Parla tanto quando è da sola, quando gioca col suo cagnolino. Parla spesso di notte, mentre dorme, ma faccio fatica a capirla.-
- E col padre?- chiesi.
- In realtà con lui non parla affatto, per lo più mugugna... e lo respinge. Soprattutto da quando è in terapia.-
- Adesso dov'è? Posso parlare anche con lui?-
- Non vive più con noi da qualche anno. Da tre anni. Se n'è andato per via di Enza. -
- Gliel'ha chiesto lei?-
- No. Ma la situazione era diventata insostenibile, anche tra noi... -
- Ma Enza non lo vede mai?-
- Ogni tanto, quando capita...due o tre volte all'anno. Anche meno.-
- Fa terapia con un neuropsichiatria?-
- Sì, una volta la settimana va all'ASL ... fa terapia individuale e di gruppo, ma mi dicono che anche lì non parla.-
Non mi sembrò il caso di insistere e la salutai, preannunciandole un nostro prossimo incontro con la neuropsichiatra. Avevo battagliato molto per fissarne un altro in così breve tempo, perché di norma l'incontro è uno solo durante tutto l'anno. E, a volte, salta anche quello, per via del sovraffollamento di pazienti nelle strutture ospedaliere ormai smantellate dalla logica dei tagli finanziari.

Un giorno decisi di portarla fuori, nel cortile, a fare due passi. Non era un giorno per niente diverso dagli altri, non per Enza che mi sembrava sempre la stessa, anche se forse era un po’ ansiosa. E quel giorno anche io mi sentivo un po’ strana, un po’ inquieta, demoralizzata, forse.
Non riuscivo ad essere incisiva con lei. E del resto il suo silenzio aveva invaso anche me. Mi sentivo costretta anche io a parlare a voce bassa, a biascicare. Il tono della mia voce era sempre il più alto di tutte. Un po’ mi costringevano a vergognarmene e ad ovattarlo in me. A casa non parlavo con nessuno e fuori lo stesso.
Erano quattro mesi che vivevo lì e non avevo ancora conosciuto nessuno con cui poter parlare al di là dei soliti argomenti: scuola, frasi di cortesia, tempo e di Enza!
Popolo ottuso di montanari di confine!, pensavo.
Anaffettivi incestuosi!, dicevo.

Nel cortile Enza si lasciava condurre docilmente dove volevo, senza protestare. Non si guardava mai attorno, ma sempre fisso davanti a sé. Le tenevo forte la mano. E lei non mollava la presa.
- Guarda che bella giornata oggi, Enza!- le dicevo all’orecchio, ma lei non si voltava neanche.
- Hai visto quanto sole c’è oggi? E pensa che siamo a gennaio!-
Il sole le faceva gli occhi ancora più chiari e l’espressione più dolce del solito. L’accompagnai lungo tutto il perimetro del cortile per un paio di volte.
-Enza, a cosa pensi?-
Ad un certo punto decisi di lasciarle la mano e di lasciare che andasse dove voleva. O dove poteva.

Vidi il suo braccio ricadere sul fianco con un rumore sordo. Per un attimo rimase ferma sui suoi passi. Immobile, leggermente protesa in avanti.
Sporse il capo ancora più avanti, come se un vento la prendesse alle spalle.
Io al suo fianco la guardavo, anch’io immobile. In attesa di lei. Della sua mossa. Rimase ferma per un po’, anche lei in attesa. Di sé, forse. Poi mi guardò, indagando i miei occhi.

Di colpo dunque si mosse, da sola. E camminò. La lasciai andare dove voleva, standole sempre alle spalle. Camminava mugugnando qualcosa che non colsi. Lasciò il cortile ed entrò nel campo di calcetto e lo tagliò in diagonale, io facevo un po’ fatica a starle dietro perché camminava velocemente.
Enza, vuoi fuggire?, pensavo.
Arrivò fino alla recinzione metallica e trovò un varco dove era rotta. Arrivò fin su un muretto che dava sulla strada, di sotto. Ci salì sopra, in piedi, a dondolare su di esso. Immaginai che cadesse di sotto, sulla strada, per un volo lungo lungo e per un secondo forse lo desiderai anche.

Quella era una giornata strana, una di quelle giornate nelle quali sarebbe potuto accadere di tutto.
Enza. Un’acciughina bionda, esile come un ramo di giunco, avrebbe potuto precipitare giù. Avrebbe taciuto per sempre, legittimata a farlo e senza dover dare spiegazioni a nessuno.

Guardava in basso. Poi si voltava verso di me. E poi ancora verso la strada. Dondolò per qualche attimo.
Enza, vuoi fuggire?, pensai.
Inciampò. La vidi cadere. Forse che l’avevo portata lì per ucciderla?
Riuscì ad aggrapparsi al muretto non so per quale abilità o fortuna.
-Aiuto!- disse urlando.
L’aria si fermò, mi sembrò tremare. E la sua voce mi sembrò bellissima.
-Non c’è bisogno che urli, Enza, io sono qui. Io ci sono e ti tengo forte- dissi tirandola su, al sicuro. Mi sorrise. Questa volta con pienezza. E solo a me.

Da allora Enza nei miei confronti cambiò ed iniziò a parlarmi quasi di colpo, certi giorni addirittura lungamente. Parlava, specie quando era un po’ nervosa, molto velocemente, quasi come flusso di coscienza. Parlava di tutto. Parlava con consapevolezza. Parlava di sé, a me non faceva mai domande, ma andava bene così. Ancora però non si sentiva libera di farlo in pubblico o davanti alla classe ed era su quello che avrei voluto lavorare.

E quando incominciammo ad abituarci l’una alla voce e ai pensieri dell’altra e quando Enza prese a fidarsi di me, arrivò come un macigno su di noi la data della scadenza del mio contratto che non mi fu rinnovato.
31 gennaio e di Enza non seppi quasi più nulla.
Silenzio.

La scuola non assicurò la continuità didattica ed Enza dovette abituarsi a qualcun altro. E forse a tacere con qualcun altro.

Adesso io insegno altrove, in un’altra provincia, con altri ragazzi in cerca di stabilità, ma sempre, quando li guardo negli occhi, rivedo gli occhi di Enza.
E, in fondo, c’è sempre lo stesso silenzio.

Brano tratto dal racconto inedito Silenzi di Maria Luigia Longo


Silenzi - Parte II

[...] Il primo giorno in cui la vidi ero un po’ emozionata e aspettavo con ansia di conoscerla.

Arrivò. Esile come una foglia, accompagnata dalla madre, bionda anch’essa. Si tenevano per mano. Enza si aggrappava alla mano della mamma cioè. Il suo passo era esitante e un po’ arretrato rispetto a quello della donna. Le camminava leggermente dietro. Camminava piano. L’aspettavo in fondo al corridoio, davanti alla classe, in compagnia dell’insegnante d’italiano che lei già conosceva.

Presentazioni di rito con la signora bionda, strette di mano, raccomandazioni, apprensioni.

L’insegnante di classe le accarezzò la testa, ma senza toccarla, come se avesse paura di farlo. O solo forse per pudore. Mi presentò, lei mi guardò di sguincio, accostandosi ancora un po’ di più alla madre. Non osai fare lo stesso e la salutai solo a voce. Non sapevo se mi avesse sentito perché il vociare degli altri studenti era molto alto, più tardi avrei capito che in realtà Enza sentiva tutto.

L’insegnante la accarezzò ancora una volta e la guidò in aula. Nel momento del distacco dalla madre, ebbe un moto quasi felino: mugugnando un po’ le riafferrò la mano e se la strinse al petto. La donna subito, quasi d’istinto, passò la mano di Enza in quella dell’insegnante e le sussurrò qualcosa all’orecchio, in una sorta di passaggio di consegne tacito e usuale. Lei protestò ancora un attimo sommessamente con un grugnito impercettibile e agitando il braccio, come volendosi scrollare di dosso il peso di quella mano che la bloccava.

Io restavo lì, davanti a loro. Un po’ in disparte.

Poi fu tutto veloce: la mamma salutò veloce, un saluto a mezz’aria che rimase sospeso, non corrisposto da nessuno.

-Quale banco vuoi quest’anno, Enza?- chiese l’insegnante avvicinandosi al suo orecchio. Non rispose.

Scegliemmo l’unico libero, al primo banco.


Io, seduta in un banchetto a due posti con una ragazzina che neanche mi guardava e, intorno, la classe urlante che chiacchierava di vacanze appena trascorse.


Quella lezione passò così senza che io fossi riuscita ad entrare in contatto con Enza, mi scivolò dalle dita senza che potessi oppormi. La mia presenza, la mia voce all’orecchio non sembravano toccarla. Non ne era infastidita, semplicemente sembrava non la sentisse nemmeno. Rimase seduta, composta, incredibilmente dritta, con le gambe ben chiuse, serrate, i piedi dritti ben piantati a terra e i pugni chiusi, stretti sul banco.

Finii le mie tre ore e la lasciai lì, nel banco da sola. Rimase nella stessa posizione iniziale. Inerte. Mi sembrò ancora più piccola e più composta.

Da piccola riuscivo anch’io a rimanere per cinque ore seduta con le braccia conserte e le gambe unite, ginocchia praticamente attaccate e i piedi ben piantati a terra. Non mi muovevo neanche durante la ricreazione, rimanevo immobile nel mio banchetto color verde acqua e non andavo neanche in bagno.

-Riuscite a stare fermi?!-urlava la mia maestra. Io sì che ci riuscivo, eccome se ci riuscivo! E per tutte e cinque le ore. Dovevo educare il mio corpo a fare quello che dicevo io. Andavo in bagno quando tornavo a casa, dopo cinque-sei ore d’astensione. Dovevo educare la mia vescica a resistere. Tutto il mio corpo doveva resistere!

E tu, Enza, perché lo fai?

Perché costringi il tuo corpo a diventare quasi esanime?


All’uscita di scuola vidi Enza che attraversava il corridoio pullulante di studenti rumorosi aggrappata alla mano, al corpo della madre.

Lei, la madre, un sorriso dimesso, un po’ terrorizzata anche lei dal vociare convulso ed Enza, un’espressione incerta, cristallizzata su qualche pensiero tutto suo, o forse su niente.

Enza, capelli biondi legati dietro la nuca, con un’espressione cristallizzata sul niente.


Il giorno dopo, fronteggiando la sua resistenza silente, fui io a prenderle la mano e a condurla al suo banco e fui io alla fine della giornata a consegnarla nelle mani della madre. E accadde anche il giorno dopo e quello dopo ancora. Non per questo però potevo dire di essere entrata in confidenza con lei o di aver creato alcuna empatia. Certo, riuscivo io a parlarle all’orecchio senza paura e lei sembrava rispondere ai miei input, ma mai a parole. Mai che mi guardasse negli occhi!

Pugni chiusi, occhi azzurro cielo, liquidi, acquosi. Enza.


Dopo tre settimane dall’inizio della scuola la situazione non era mutata: Enza non mi aveva mai parlato, riusciva solo ad aggrapparsi al mio braccio quando doveva spostarsi da un punto all’altro dello spazio; la classe e anche gli altri insegnanti facevano volentieri a meno di lei e di me. Dopo un mese riusciva a rispondermi solo e no, in un sussurro lieve. Non aveva stabilito né con me né con nessun altro un linguaggio comunicativo. L’eloquio era scarsissimo, pressoché inesistente. Anche la grafia era incerta e sgraziata, inibita anch’essa. Avevo l’impressione che si fosse inceppata in lei proprio la formazione delle idee; non nascevano in lei neppure se qualcuno gliele suggeriva.

I suoi pensieri non fluivano regolarmente. Mi sembravano immobili. Fissi come lei.


A volte qualche ragazzina, incoraggiata da qualche insegnante, durante la ricreazione le offriva qualcosa da mangiare e prendendola per mano la portava fuori in cortile. Enza quasi senza resistenze si lasciava condurre, lasciando anche che le sussurrassero qualcosa all'orecchio. E di me non si curava neppure. Le guardavo allontanarsi piano e in maniera sbilenca dal fondo del corridoio. In un certo senso era vero come mi avevano detto all'inizio che preferiva circondarsi di donne. In realtà non è che le preferisse, semplicemente non ne aveva paura. Capii che aveva paura degli uomini.

Decisi così, parlandone con l'insegnante di lettere, che avremmo inserito anche Enza nei gruppi di lavoro e di studio nei quali era sempre divisa la classe. Perché lei era tutto sommato brava. Riusciva abbastanza bene in quasi tutte le materie. A casa studiava, anche se credo che l’aiutasse la mamma o che addirittura facesse i compiti al posto suo. In ogni caso non aveva grossi problemi e i compiti scritti non avevano grossi errori. L’insegnante di lettere mi disse che forse le piaceva scrivere, ma che non le dava da fare i temi perché poi non riusciva a capire la grafia e quindi non li correggeva. Questa cosa mi indignò e pretesi che Enza fosse trattata come tutti gli altri, senza sconti. I suoi lavori dovevano essere accolti con la stessa cura riservata ai lavori degli altri. Lo pretesi.

Enza non aveva bisogno di sconti.


Il suo problema era parlare a voce alta.

Il suo problema era far uscire il fiato da sé.

All'inizio il gruppo nel quale la inserimmo era formato solo da ragazze. Andavano tutte d'accordo e sapevano creare un clima sereno. Tutti i lavori venivano scritti su un cartellone che veniva poi esposto in classe e, a turno, ciascun componente del gruppo leggeva una frase. Nessuno doveva ridere di scherno, ma solo applaudire. Aspettammo con ansia che anche Enza si decidesse a farlo e ad un certo punto lo fece davvero: lesse a voce quasi alta la frase che aveva scritto lei stessa. Tutti applaudirono e lei sorrise. Come premio le regalai un diario e le chiesi di scriverlo se avesse avuto voglia. E solo se avesse voluto lo avrebbe fatto leggere a qualcuno.

-E’ un diario segreto...tutti hanno avuto un diario segreto da ragazzi. Anche io ne avevo uno alla tua età. Se ti va puoi scrivere quello che ti capita o quello che pensi o anche quello che ti passa per la testa in qualche istante fulmineo! Tutto quello che vuoi!- le sussurrai all’orecchio.

Lei mi sorrise senza guardarmi in viso. Le vidi l'orecchio diventare rosso. Forse si era emozionata.

Agl'inizi di dicembre aveva fatto qualche progresso e biascicava qualche parolina anche alle compagne. Anche se non aveva ancora una completa autonomia personale e aveva bisogno della mia mano per muoversi in mezzo alla gente.

Ad un certo punto inserimmo un maschio nel suo gruppo di lavoro, aspettandoci qualche reazione da parte sua, ma non arrivò. Continuò a fare bene i suoi compiti e ogni tanto a dire qualche parola. Poi provammo ad inserire altri due ragazzi nel gruppo e ugualmente non ebbe alcuna reazione. S'irrigidì invece quando la inserimmo in un gruppo esclusivamente maschile. Incominciò a mugugnare, a cercarmi e a prendermi di nuovo la mano. E a smettere di lavorare.


L'incontro con la neuropsichiatra non fu illuminante né risolutivo. La dottoressa non conosceva Enza, perché l'anno precedente era affidata ad un altro medico, e aveva con sé solo quella diagnosi che avevo letto anch'io. Grazie ai miei racconti, registrò i progressi della ragazza con un certo entusiasmo, ma niente di più. Non mi diede consigli pratici per arrivare veramente ad Enza, per farla uscire dal bozzolo che si era costruita. Anche a lei chiesi le cause del silenzio.

-Di sicuro possiamo dire che la bambina paga le conseguenze di una violenza sessuale subìta intorno ai cinque anni - disse.

Decisi di convocare la famiglia.

La madre trafelata e ansiosa arrivò nella sala insegnanti, con quel suo sguardo terrorizzato che ormai avevo imparato a riconoscere. Chissà quanta della sua ansia riversava su Enza!

Stretta di mano e poi subito -E’ successo qualcosa?!- accorata. [...] TO BE CONTINUED...


Brano tratto dal racconto inedito Silenzi di Maria Luigia Longo



giovedì 16 giugno 2011

Silenzi - Parte I

E’ che a me guardare negli occhi un bambino fa sempre venire in mente Enza.

E’ una storia di qualche anno fa che mi si è insinuata dentro e non mi fa andare avanti.

Enza. Un’acciughina bionda, esile come un ramo di giunco. Con tutte quelle venuzze azzurre a segnarle la pelle chiara.

Diagnosi: mutismo elettivo.

Alla fine di agosto mi arrivò la chiamata tanto attesa: una supplenza nella scuola media di ****** a ricoprire l'insegnamento di sostegno per una bambina di prima, Enza, appunto. Di soli quattro mesi, però.

-Ma tanto te lo rinnovano di sicuro - mi disse la mia amica Roberta, insegnante precaria di vecchia data che però aveva sempre lavorato qua e là. - L’importante è lavorare! - diceva.

Ero ancora in vacanza e una voce sbrigativa da segretaria annoiata mi informò che avrei avuto l’incarico per quattro mesi e per nove ore settimanali. Punto.

- Dunque, accetta?-

-Sì che accetto, ma mi può dire che problemi ha la ragazzina?-

- Questo non lo so... non spetta a me dirlo. Venga a scuola e ne parlerà con la responsabile del sostegno, la professoressa Zampini. -

Okay.

-E sa in quali giorni dovrei lavorare?- chiesi.

- L’orario non è ancora definitivo. Allora... accetta? Deve dirmelo subito perché altrimenti devo cercare un'altra insegnante!-

-Sì, le ho già detto di sì. Accetto.-

Certo che accetto, pensai, dopo due anni di scuola di specializzazione per l’insegnamento e uno per il sostegno a buttare il sangue su diagnosi funzionali, piani educativi individualizzati, e la professionalizzazione dell’insegnamento e blah e blah e blah! Certo che accetto, diamine!


Il viaggio di dodici ore attraverso l’Italia non lo raccomando a nessuno.

Be’, sì, si può sempre dire che è bello viaggiare in treno piuttosto che in aereo perché vivi per davvero le proporzioni del viaggio e del cambiamento e che gli incontri che fai sono unici. Però la verità è che all’arrivo avevo un herpes di proporzioni colossali e l’unica persona che avevo incontrato era stata una donna che per tutta la notte non aveva fatto altro che parlare al cellulare dei fatti suoi: figli, debiti e amanti compresi.


La dirigente, la terribile professoressa Pontalti, una ultracinquantenne tutta management e bilanci, mi accolse in quella stanza allora sconosciuta piena di trofei, coppe, piante e carte.

-Ben arrivata! – mi disse, ma col sottotesto di Era ora!, perché la riunione della commissione del sostegno si era già tenuta qualche giorno prima, ma io non ero potuta arrivare in tempo perché dovevo preparare i bagagli di un anno di vita lontana da casa, comprare almeno un tailleur e un paio di cardigan e organizzare il viaggio.

- Sì, alla fine ce l’ho fatta! – azzardando, io, un sorriso a malapena corrisposto.

- Dunque, a lei è stato assegnato il caso di Enza Poli, di I D! Nove ore settimanali.

-Sì, mi hanno detto...ma la diagnosi?-

- E’ un caso di... un caso di... dunque, di...ecco! mutacismo o mutismo elettivo!- disse cercando tra le tante carte che affollavano la scrivania.

- Ho capito. – anche se in realtà non ne avevo neanche mai sentito parlare – e di lei cos’altro sappiamo?

-... –

- Cioè, qual è la sua storia personale? -

- E chi lo sa! Questo dovrà ricostruirlo lei! Sa quanti studenti certificati abbiamo e quanti, di più!, ci danno problemi? Vada a parlare con la professoressa Zampini, è lei che si occupa del sostegno qui dentro. E’ in questa scuola da anni! – disse alzandosi e accompagnandomi alla porta con il sorriso di chi ti dà una dritta importante! – L’aiuterà!-.

- E...dove la trovo?-

-Chieda in bidelleria! – congedandomi.

La professoressa Ilda Zampini non c’era e sarebbe passata da scuola l’indomani.

A dieci giorni dall’inizio delle lezioni non sapevo ancora nulla di Enza e non avevo neanche una casa e, a pensarci bene, non avevo ancora neppure firmato il contratto!

Tornai dalla dirigente , un po’ seccata, mi disse di andare in amministrazione, dove di norma! avrei dovuto essere già stata prima di andare da lei e lì avrei trovato il mio contratto da firmare.

Be’, un iter un po’ strano, pensai, perché...

Ma non dissi nulla e andai a firmare questo benedetto contratto che aveva come scadenza il 31 gennaio. Proprio la fine del quadrimestre!, pensai.

Ora mi restavano da fare due cose: trovare casa e scoprire cosa fosse il mutacismo o mutismo elettivo.

Le bidelle mi indirizzarono verso una bacheca dove qualche privato aveva affisso annunci di monolocali “vicinissimi alla scuola, termoautonomi, modica cifra!” proprio per gli insegnanti che come me venivano da fuori. Telefonai al primo della lista e accettai senza neanche vederlo, il monolocale nuovissimo, vicinissimo alla scuola, prezzo modico!, sperando che fosse ancora libero.

Lo era e anche se la cifra non era tanto modica. Accettai perché gli altri erano già stati occupati qualche giorno prima e soprattutto perché, a cinque ore dal mio arrivo in quel paesello sperduto sotto le Dolomiti, giravo ancora per la scuola con i miei due bagagli pesanti e ingombranti come bauli e uno zaino in spalla!

Prima di andare nella mia nuova casa, volevo sapere cosa fosse la malattia di Enza. Si trattava di un disturbo psichico per il quale il bambino, pur sapendo parlare, decide di non farlo: parla solamente in determinate situazioni o con certe persone. E’ spesso erroneamente assimilato all’autismo. Il rapporto interpersonale genera un alto tenore di tensione e d’ansia che porta ad un blocco psichico.


Il monolocale era in realtà una mansarda al terzo piano di uno stabile in pietra con tetto spiovente in legno, con le enormi travi bene in vista. Alle finestre gerani che tentavano di dare un che di naturale e vivo ad una struttura che a me è subito sembrata disabitata.

E infatti ero l’unica che avrebbe abitato lì. Intorno le case sembravano mute anch’esse. Venuta la sera mi aspettavo di vedere una luce accendersi, magari proprio nella casa di fronte alla mia, ma niente! Nessuna luce si accese e subito dopo cena, dopo aver disfatto i bagagli, spensi anche la mia. Feci fatica ad addormentarmi e ascoltai invece i nuovi rumori notturni. Lo scricchiolio dei mobili, delle pareti e della rete del mio letto.

Dormii poco quella notte e pensai molto a come sarebbe stato vivere lì e a come sarebbe stata Enza Poli.

Il giorno dopo incontrai nei corridoi della scuola la prof.ssa Zampini, una donna corpulenta, indaffarata e sbrigativa. Mi sembrò subito molto pratica. Mi strinse la mano con forza, senza sorridere e scartabellando velocemente un fascicolo con l’altra mano. Mi parlò di Enza in una maniera rapida e pratica, appunto. Un po’ banale.

-Ha dodici anni. E’ figlia unica. Non ha particolari problemi cognitivi e parla...biascica, bisbiglia solo con alcune persone...Ha bisogno di fidarsi delle persone con cui viene a contatto. Avviene molto... molto raramente.

-Sa badare a se stessa? Cioè...nella cura personale, nei movimenti...- precisai.

-Non proprio...è insicura a stare in mezzo agli altri. Ha paura ad esporsi.-

-Le cause del mutismo?-

-Ipotesi, supposizioni...nessuna certezza. E a noi in fondo non importa quali siano le cause di un disagio. Noi non siamo neuropsichiatri, siamo insegnanti. Noi dobbiamo solo prenderci cura di loro. No?- disse guardandomi negli occhi.

Non ero, come ora, d’accordo con quest’affermazione, ma non ne parlai.

La fermai ancora un attimo per chiederle il fascicolo personale di Enza, ma velocemente mi disse di chiedere alle bidelle.

Il fascicolo consisteva in 3 fogli formato A/4 di informazioni generiche che avevo già trovato su internet.

Enza dov’era?

Di Enza in quei fogli non c’era alcuna traccia. “la ragazzina non sa sostenere una interrogazione orale di fronte alla classe” ... “la ragazzina non sa leggere a voce alta davanti ai compagni” ...”l’alunna non sa rapportarsi agli adulti e anche al gruppo dei pari”... e frasi del genere.

Ma Enza dov’è? Cosa sa fare? Cos’è? Cosa vuol essere? E cosa le hanno fatto? E perché? E la famiglia dov’è?

Niente.

Mi misi in testa che Enza era proprio fuori da quelle pagine e lontanissima dalla sua scheda personale; era tra una frase e l’altra della scheda, nel bianco della pagina, nel vuoto di quell’inchiostro stupido e muto, quello sì muto!

E lì avrei dovuto cercarla. Avrei dovuto inseguirla sul terreno dei suoi silenzi. Speravo che lì mi avrebbe accolto, con tutto il mio impaccio vocale.


Il primo giorno in cui l'avrei vista ero un po’ emozionata e aspettavo con ansia di conoscerla.[...] TO BE CONTINUED...

Brano tratto dal racconto inedito Silenzi di Maria Luigia Longo



mercoledì 15 giugno 2011

***


La notte
ha posato su di te
che lieve ansimi dormendo
le sue mani di velluto
e accoglie nel suo spazio immoto
il tuo involucro che pure pare di pietra
dimentico e pago.
Il desiderio d’averti
va oltre il tempo di cercarti
oltre […] la tua corazza d’ebano
oltre anche te
e spopola il mondo che ti circonda
in un impeto che solo nel tuo risveglio
trova la pace.

Tratta da Paesaggi di tempo, pag. 34


lunedì 13 giugno 2011

La Musica

-Alla peggio non diventerai pianista di successo, ma certamente imparerai a suonare uno strumento che ti farà compagnia!-
Queste le parole di sua madre tutte le volte che tentava di spiegarle che a lei di suonare il pianoforte non importava proprio niente e che, anzi, era davvero stufa delle lezioni, del maestro di musica, barbuto e severo, e di tutte le ore che perdeva per i solfeggi e gli esercizi.
Sarà stata la sua figura esile, gli occhiali spessi e tondi e l’aria svagata di chi non sa mai bene dove si trovi a indurre la madre di Erica a iscriverla fin dall’età di sette anni alle lezioni di pianoforte del maestro Biagio Aigus, noto direttore d’orchestra.
-Sì, non avrai forse dita affusolate e lunghe come le pianiste vere, ma - anche il maestro Biagio è d’accordo con me - l’esercizio fa miracoli!- E le apriva in fretta lo sportello dell’auto per farla scendere e non arrivare tardi alla lezione.
Le lezioni invernali poteva anche sopportarle, ma erano quelle estive che proprio non le andavano giù: per due ore di lezione alla settimana doveva rimanere rinchiusa in casa a studiare tutti i pomeriggi! E detestava anche quei ragazzini che invece tornavano dal mare tutti sudati, abbronzati e festosi, ai quali le madri non avevano imposto neanche di esercitarsi con la diamonica nell’ora di musica a scuola.
-Su, Erica, impegnati! Quest’anno hai il concerto di fine corso e poi l’anno prossimo ti iscriviamo al conservatorio! Non vorrai mica fare come la zia Ada che si è praticamente bruciata la carriera al suo saggio di fine corso perché se l’è fatta addosso davanti a tutti? E adesso, che ha sessant’anni ed è sola come un cane, l’unico passatempo che ha sono le parole crociate!-, concludeva scuotendo la testa in segno di forte disapprovazione.
L’idea di esibirsi di fronte a duecento persone non la turbava più di tanto, era la prospettiva di otto anni di conservatorio che invece la atterrivano letteralmente. Ma le madri, si sa, oltre ad avere più esperienza di te, con i loro sproloqui ti regalano anche idee geniali per opportune vie di fuga. Così, durante tutta la giornata del fatidico concerto di fine corso, Erica si allenò per un memorabile e definitivo addio alle scene bevendo quasi quattro litri di acqua e riservando al suo pubblico una liberatoria evacuazione al suono di un intonato do-sol, do-sol, do-sol con la mano sinistra, mentre, con buona pace del maestro Biagio Aigus, noto direttore d’orchestra, la destra abbandonava una scala a toni alternati già in cerca di altri passatempi.

Racconto tratto dalla raccolta inedita Fughe d'autore

di Maria Luigia Longo


domenica 12 giugno 2011

Paris où es-tu?


Quando arrivava aprile io ero troppo troppo contento di essere vivo.

Guardavo il cielo che diventava chiaro quasi di botto... puf! ed era giorno!

La mattina mi svegliavo presto, alle prime luci e aspettavo che mia mamma rientrasse dalla ronda notturna. A quel tempo lei e altre donne dell'associazione Lea si erano messe in testa che dovevano pattugliare il quartiere.

-Il quartiere è nostro! Capisci, Maurice?- mi diceva le prime volte. - Non dobbiamo abbandonarlo!

- Il quartiere è una merda- le rispondevo - Qui non c'è un cazzo da fare. E' una galera.-

- C'è molto da fare, invece!-

Quella matta di mia madre si era messa in testa di fare il giustiziere della notte, armata solo di taccuino e biro. Usciva di casa verso mezzanotte e s'incontrava con Sophie, Fatima, Zahra, Patricia e le altre. Erano in quindici sedici all'inizio... e, d'accordo con l'assessore alla Tranquillità Pubblica di Montreuil, passavano la notte ad annotare sul taccuino tutto quello che vedevano di strano per le strade del quartiere e segnalavano problemi, mancanze...spacciatori compresi!

- Com'è andata stanotte?- le chiedevo quando rientrava

- Maurice, stanotte abbiamo contato che c'è un lampione ogni due chilometri di strada. Possibile?! Come fai ad evitare le aggressioni se intanto qui è tutto buio! - Lei se la prendeva davvero. Ci credeva tanto nel quartiere.

E voleva che anche io facessi qualcosa di buono per migliorare le cose. Ma io in quel periodo ero un casino: avevo lasciato la scuola e non avevo niente da fare per tutto il giorno. Trovare un lavoro come si deve era praticamente impossibile, prima di tutto perché avevo solo sedici anni e poi perché di lavoro in giro non ce n'era, almeno per me.

All'inizio mi alzavo tardi, quasi a ora di pranzo e scendevo direttamente giù a mangiare un kebab o qualsiasi cosa fosse commestibile e poi me ne andavo a cazzeggiare in giro con i miei amici. Giocavamo quasi tutto il tempo a pallone: all'epoca adoravo Lilian Thuram e lo imitavo in tutto e per tutto. Se lo beccavo in tv o su qualche manifesto in centro mi immobilizzavo davanti a lui. Ma anche io ero bravo a giocare a calcio. Ero magico nel corpo a corpo, nessuno mi sfuggiva. Giocavo con l'uomo volante: driblavo chiunque con l'aiuto del muro di un palazzo, o del palo della luce o del marciapiede che, col rimbalzo, mi facevano da compagno di squadra. Eravamo una coppia infallibile, l'uomo volante e io.

A volte con i miei amici ci esercitavamo sullo skateboard mentre ascoltavamo musica rap o R&B, proprio di fronte a Rue de l'Acacia, dov'è ancora oggi il ghetto dei rom. Ci mettevamo quasi vicino al cancello del loro recinto e Ali partiva con i suoi rap.

A volte mi fermavo a parlare con Moustapha, un vecchio cieco che veniva, anche lui come noi, da Algeri. Lui era arrivato negli anni '70, mamma lo conosceva bene perché erano arrivati insieme. Mamma aveva cinque anni e lui invece era già più che un ragazzo. Li sistemarono tutti qui, a Montreuil. Avrebbero dovuto starci poco, due tre anni al massimo e invece se li erano dimenticati qui.

- Mousta, ma perché non hai preso e te ne sei andato?- gli ho chiesto una volta.

- Ci ho provato, Maurice... Ci ho provato due o tre volte. Ma dove me ne potevo andare? Da quando sono diventato cieco, poi...- E finiva sempre col raccontarmi i suoi malanni: la perdita della vista, poi del lavoro e poi la morte della moglie, proprio lì nel quartiere. Lui se ne stava sempre seduto sul marciapiede sotto il mio palazzo e qualche volta qualcuno gli portava da mangiare, anche mamma, o gli faceva l'elemosina. Lui non chiedeva niente però e in effetti non so come si mantenesse.

A me piaceva ascoltarlo, ma soprattutto quando mi raccontava dell'Algeria e dei primi tempi in cui era a Parigi: era così bravo che mi faceva vedere i colori, mi faceva sentire i profumi, sentire le voci...e il suo francese ancora un po' da straniero mi faceva viaggiare.

Da quando mamma aveva iniziato a fare la volontaria delle ronde però continuavo a pensare sempre a quello che mi raccontava e a quando mi diceva che è importante raccontare le proprie strade. Mamma era brava a raccontare qualsiasi cosa.

- La periferia, Maurice, non è solo quella che raccontano in tv o quelli che vivono in centro!-

E un po' aveva ragione, anche se all'epoca io la rabbia la sentivo davvero e non perché me la raccontavano quelli di Montparnasse. Anche perché io quasi mai andavo in centro o leggevo i giornali. Lei invece leggeva tanto, sopratutto da quando le avevano dato il part time e aveva tanto tanto tempo per fare quello che le piaceva. A volte s'incazzava tanto per alcune frasi che dicevano su di noi che abitiamo nelle periferie. Che eravamo tutti delinquenti, tutti spacciatori e che violentavamo le donne. Sì, a volte sentivo di fatti del genere, ma io non c'entravo niente con quelle storie e neanche i miei amici. Una volta, ad esempio, si è incazzata davvero tanto perché Sarkozy aveva definito racaille, feccia, i ragazzi delle banlieue.

-Tu ti senti una feccia, Maurice?- mi chiese.

- Io veramente mi sento una merda, mamma- dissi ridendo, ma non per quello che intendeva quello stronzo di Sarko. Mamma quella volta s'incazzò pure con me per quello che avevo risposto, anche se l'avevo detto ridendo.

- Solo uno gli ha risposto per le rime: il tuo Thuram!- concluse trionfante. Più tardi ho saputo che, una volta diventato presidente, gli ha offerto un posto come ministro della Diversità, ma che Lilian l'ha garbatamente mandato a fanculo.

Sarà stato perché mamma mi martellava con le sue storie, ma da un certo momento in poi guardavo il quartiere in un altro modo: anch'io notavo quello che non andava e lo raccontavo agli altri. Non scrivevo niente, scrivere proprio non mi piaceva, ma glielo raccontavo a parole.

Una volta, di fronte al muro della scuola, avevo letto la scritta: 'FRANCIA BIANCA, RABBIA NERA' e, a fianco, una marea di parolacce. E mi era venuta l'idea di fotografarla. Ma non avevo una macchina fotografica e allora chiesi ad Hassan se poteva procurarmene una tranquilla. Lui lo chiese a suo cugino e, nel giro di due giorni, ebbi la mia prima compatta Canon! Neanche a dirlo e mia mamma me la fece buttare in fondo alla Senna e mi fece sentire come se avessi compiuto il delitto del secolo.

- Maurice, non è così che bisogna agire. Su, pensaci bene!-

E io ci avevo pensato bene e avevo deciso di restituirla ad Hassan, ma poi mi ero un po' vergognato e non l'avevo mai fatto. Me la tenevo nello zaino ma non fotografavo niente. L'unica foto che avevo fatto era quella scritta sul muro. E per tanto tempo fu così: me la portavo in giro ma non fotografavo proprio niente. Però continuavo a pensarci.

A un certo punto mi capitò di trovarmi un lavoretto. Mi era capitato davvero per caso mentre una domenica con mia mamma stavamo andando a trovare una sua amica che abita a Le Marais. Scesi dal metro, sulla vetrina di una boulangerie, c'era scritto che cercavano un ragazzo per le consegne nel quartiere. Il giorno dopo iniziai. Mi pagavano quattro spiccioli, ma puntuali ogni settimana e io mettevo da parte quasi tutto per comprarmi la mia fotocamera digitale. Quando fui abbastanza vicino alla cifra che volevo raccogliere mi fermai sulla Senna e lanciai giù quella che mi aveva dato più di quattro mesi prima Hassan.

Così iniziai a far foto. Finito il lavoro mi fermavo a fotografare intorno alla boulangerie: le case, le panchine, gli alberi... le persone: i ritratti mi venivano troppo bene! Dopo qualche mese avevo già raccolto migliaia di foto, anche di turisti. Avevo, poi, fotografato più di duecento scorci sulla Senna.

Meravigliosi! Quando arrivava aprile ero troppo troppo contento: c'era una luce bellissima e faceva notte più tardi. E c'erano di quei tramonti...incredibili!

Quando tornavo a casa a volte, prima di salire, raccontavo tutto a Mousta e certe volte gli descrivevo le foto. E col tempo era proprio lui che me lo chiedeva.

-Dài, Maurice, raccontami qualche foto di oggi!- mi diceva.

- Bella Parigi, no?- dicevo prima di andare e lui rispondeva sempre - Eh sì, bella Parigi...ma dov'è Parigi, Maurice?- e lo ripeteva due o tre volte, ma dopo la seconda io lo sentivo di meno perché ero già in corsa verso casa.

In quel periodo ero davvero felice. E anche mia mamma credo che fosse contenta della piega che stava prendendo la mia vita.

- Mamma, hai visto?- le dicevo quando guardavamo insieme le foto.

- Guarda questa! Bella, no?- e lei sorrideva e annuiva.

-Quanto è bella Parigi!- dicevo

- Sì, è bella, Maurice, ma perché non fotografi anche Montreuille? E' qui che viviamo. Parigi arriva fino a qui, in fondo.- mi disse una volta.

La cosa all'inizio non mi convinceva molto. Cosa dovevo fotografare? I palazzoni sporchi e cadenti, le scritte sui muri contro la polizia, iragazzi che si facevano negli androni? Io volevo fare foto artistiche e lì di arte ne vedevo ben poca.

Poi però una volta nel primo pomeriggio, mi fermai non so perché a guardare Mousta da lontano. Ero dall'altro lato della strada e lui non sen'accorse, non poteva neanche sentirmi. Il suo corpo, che a me sembrava un mucchietto d'ossa gettato sul marciapiede, nella luce lunga di quelle ore proiettava sul muro del palazzo, alle sue spalle, la sua immagine un po' piramidale. Lui se ne stava seduto a terra a gambe incrociate e la sua ombra, un po' più spostata, dietro. Come a fargli compagnia.

Ecco, di colpo quell'ombra mi è sembrata bellissima. E mi è sembrato che anche il palazzo avesse una sua dignità con quella sagoma nera proiettata nell'angolo in basso a sinistra. A me di Mousta piacevano le braccia magre magre e lunghe, il viso rugoso e i capelli bianchi in contrasto con la pelle scura e soprattutto i suoi movimenti lenti e flessuosi. Ma quello che da allora mi piacque di più di tutto fu la sua ombra nera sul muro: una macchia scura dai contorni sfumati immersa nella luce del sole. E l'ho fotografata.

Non ho mai fotografato il vecchio Mousta, forse per rispetto e per non essere invadente, ma la sua ombra invece sì. Più e più volte. Non so se l'ho letto o è una mia invenzione, ma avrei voluto prendere una matita e tracciare il contorno della sua sagoma sul muro e trattenerla lì per sempre. Anche adesso che Mousta non c'è più e io ho imparato a scovare l'arte dove pochi scommetterebbero che ci fosse.

Racconto inedito di Maria Luigia Longo - aprile/maggio 2011


giovedì 9 giugno 2011

La tua terra


La tua terra
sa d'attesa e conta i passi
come fossero le ore del giorno.

E passa anche la lettura
dei nostri versi imperfetti
che tentan di ricalcare
le orme degli altri
mentre il passo cede
e si sofferma
un po' a guardare altrove
e un po' a issare
i calici celesti
di questo quasi vino
dell'ispirazione.

Inedito di Maria Luigia Longo scritto in occasione di Grola Festa del vino e delle arti

Sant'Ambrogio della Valpolicella - 7 maggio 2011


mercoledì 8 giugno 2011

Per caso. Ogni cosa è al suo posto.



Non avevo mai considerato prima d’ora l’increspatura del suo sorriso e mai avevo pensato che potesse essere così importante per me.

Tornavo nell’isola dopo appena un anno e già mi invadevano i ricordi.

Ricordo che riprendevo allora il controllo della mia vita quando lo incontrai. Per caso come tutte le cose più naturali crediamo avvengano.

Ero da qualche ora sull’isola di Lie e non conoscevo nessuno. Viaggiare in una sorta di solitaria compagnia dei luoghi era caratteristica della mia indole fin da giovane. Amavo incontrare persone nuove perché con loro avevo la sensazione di un nuovo inizio. Potevo giocare a raccontarmi in nuove forme.

Mi trovavo ora sul terrazzo a guardare, di fronte, il mare.

Blu, profondo, sconfinato.

Arrivare all’isola proprio dal mare era l’unica possibilità per accedervi, sebbene vi fosse un vecchio aeroporto usato però solo da alcuni elicotteri privati. A me era sempre piaciuto arrivarvici in nave. E anche questa volta era stato così.

Avevo deciso di imbarcarmi sull’Imperial, nave libica in rigoroso stile anni Ottanta, non troppo grande e non troppo affollata. Avevo scelto l’Imperial perché aveva a bordo personale attento e discreto e, in quella stagione, quasi esclusivamente ospiti stranieri - per lo più inglesi - che prediligevo ai miei chiassosi e invadenti connazionali. Giunti al porto di Mentiral, ho preso un taxi e in poco meno di venti minuti ho raggiunto il mio albergo, percorrendo una strada fatta di curve e tornanti a strapiombo sul mare. L’unica strada che dal porto dava accesso alla zona alta dell’isola.

Conoscevo bene quei luoghi: ci avevo trascorso quasi tutte le estati con la mia famiglia quando ero adolescente, prima che ci trasferissimo tutti a Bruxelles e che mia madre morisse e mio padre vendesse la villa di famiglia. Non ci tornai più.

Lo scorso settembre poi avevo ripreso la volta dell’isola di Lie con l’idea di passare una vacanza rilassante.

L’isola, che dall’alto poteva sembrare un pugno verde posato su uno specchio che rifletteva il cielo, si sviluppava nell’estensione di un’unica località. Soleggiata e verdeggiante, la cittadina si estendeva lungo il crinale orientale di un’altura: procedeva abbandonata e molle come una viziosa e attempata aristocratica in compagnia del suo giovane amante. Il fulcro della vita dell’isola era la zona del porto, con i suoi bistrot, i suoi circoli privati e specialmente il casinò, l’edificio più antico di Lie. Il suo stile coloniale dava ragione a quanti raccontavano che il primo edificio costruito nell’isola fu proprio il casinò, luogo semiclandestino di ritrovo di importanti personalità della vita politica, militare e dell’alta finanza internazionale, provenienti per lo più dal vecchio continente. L’isola, appartata e un po’ nascosta, divenne ben presto meta ambita di svaghi più o meno leciti, tra cui appunto il gioco d’azzardo. A quei tavoli verdi, dicono, si decisero spesse volte le sorti di intere nazioni. Una trentina di anni fa, poi, divenne luogo preferito delle vacanze mondane di famosi personaggi del cinema americano.

Adesso, ben lontana dagli oscuri fasti di un passato però non troppo distante, era una ridente località di villeggiatura di intere famigliole piccolo-borghesi in cerca di relax.

E tra queste persone c’ero anch’io.

Il mio matrimonio era finito nel peggiore dei modi: affidandone le sorti ad un avvocato. Era durato poco più di tre anni, l’ultimo dei quali si era trascinato in un continuo ed estenuante sforzo a farlo durare. Non erano mancati i tradimenti - puntualmente scoperti e anzi con nessuna intenzione di tenerli nascosti - e neanche gli insulti e le vendette legali. Alla fine lasciarci fu piuttosto un sollievo per entrambi. Dalla data della separazione era già passato quasi un anno e io non riuscivo ancora a fare il punto della mia vita, non sapevo ancora cosa volevo.

Avevo scelto l’isola per rilassarmi e per pensare un po’ a me e invece avevo incontrato Miedo e l’estro del suo sorriso.

L’avevo scorto per caso un pomeriggio sul molo in mezzo ad altra gente che però non sembrava essere in sua compagnia, intento a guardare una nave nella difficoltà di ormeggiare. Abbronzato, alto, crucciato, indossava pantaloni corti e maglietta color avorio, sotto la quale si intuiva un torace ben delineato. Aveva gesti flemmatici e sicuri, introversi. Capelli neri tagliati molto corti, quasi rasati. E una collana di semi di girasole essiccati che gli avvolgeva il collo slanciato.

Era differente dagli altri. Non pareva appartenere a quel luogo. Aveva colori e tratti somatici diversi da quelli degli abitanti dell’isola. Il particolare più sorprendente erano gli occhi grigio-verdi dal taglio leggermente asiatico sopra un naso largo africano.

Insolito.

Io, su una panchina poco distante, ad aspettare il mio taxi.

È l’uomo più bello che abbia mai visto, pensai - con una punta di raccapriccio – prima di salire sull’auto nera che era venuta a prendermi.

-Dove la porto, signore?- chiese l’autista.

-Hotel Deseo, grazie!-

Il signore ero io.

Un distinto trentacinquenne della Milano bene. Bello, curato e molto sicuro di sé, o così il mio status mi imponeva di essere.

L’auto partì nella direzione opposta a quella del porto e senza troppa fretta s’inerpicò su per quella strada che più volte avevo fatto in bicicletta con mio fratello Riccardo per raggiungere il belvedere. Alla mia destra il mare e dall’altra parte le ricche abitazioni dei villeggianti facevano da cornice ad una strada erta e sinuosa. Le ville lasciavano intravedere una notevole sovrapposizione di stili tanto da assumere un aspetto piuttosto eccentrico che non avevo visto in nessun’altra parte del mondo.

L’Hotel Deseo era posto sulla parte più alta dell’isola, lanciava un occhio al porto, dominando il mare.

Vi arrivai che era già quasi ora di cena. Gli ospiti stavano approssimandosi ad entrare nel salone, io invece salii in camera a rinfrescarmi e cambiarmi per la sera, deciso a non cenare in albergo.

Dal terrazzo riuscivo a percepire l’atmosfera festosa della zona del porto, da cui salivano suoni di danze e ritmi mediterranei. Percorrere quelle stradine in direzione del porto di sera e a piedi mi lasciava sempre una benefica sensazione di appartenenza a quei luoghi. Camminavo con dentro un senso non troppo inespresso di furiosa ricerca: mi interessava tutto, volevo provare ogni cosa.

Provavo i cibi tipici, le bevande, i vini, i dolci. Tutto. Visitavo più e più locali ogni notte, andando a dormire quasi sempre dopo l’alba. Tra tutti preferivo l’Ars Amandi, piccola tè-eria con bagno turco di giorno e casa d’appuntamenti di notte. Trascorrevo spesso le mie ore notturne in compagnia di Miriam, giovanissima e avvenente croata, che mi conduceva, con il suo elisir, dritto dritto nell’antro di eros. Quando ero con lei non parlavamo mai, non dicevamo neanche una parola, ciascuno intento forse ad ascoltare il proprio respiro. Io ascoltavo il mio dolore che, nell’orgasmo della carne, mi sembrava più denso. La sceglievo con il solo cenno del capo o con un sorriso e la pagavo senza guardarla in viso. Quando all’alba la lasciavo non sapevo ancora che vi sarei ritornato la notte seguente, poi puntualmente tutte le notti, sul finir della notte, ero con lei, in quella stanza che profumava di incenso ed olî essenziali.

Di giorno invece preferivo restare da solo a prendere il sole su una delle tante spiagge un po’ nascoste dell’isola. Se il lato orientale era occupato dalle ville, quello occidentale, invece, era tutto un susseguirsi di impervî scogli che, alternandosi con radi arboscelli, nascondevano spiagge deserte. Amavo sprofondare nell’abbraccio del sole. Lì affondavo il capo; immerso nel riverbero dei pensieri, mi pareva di percepire una nuova dimensione.

Lì, in uno stato intermedio tra la veglia e il sonno, tra la distrazione e la riflessione, intuivo l’esistenza.

E quell’appercezione inattesa mi dava il senso del vivere.

Quella parte dell’isola non era affatto cambiata. Era rimasto tutto più o meno come vent’anni prima. La vegetazione forse era un po’ meno rigogliosa, tanto che non riconoscevo nessuno dei sentieri che da lì partivano verso l’interno. Una mattina verso mezzogiorno decisi di andare in quella che era la spiaggia della mia famiglia quando ancora possedevamo la villa. Avevo all’improvviso voglia di rivedere la casa. Da quando era stata venduta non ne avevo saputo più nulla.

Fu un po’ difficile all’inizio riuscire ad individuare fra i tanti presenti ora il sentiero per accedervi. Quando lo trovai riconobbi improvvisamente tutto: il tracciato sabbioso, gli alberi, la luce, l’alternarsi delle zone d’ombra a quelle assolate, il lieve frusciare dei rami frondosi, cinguettii nascosti e persino la presenza del mare alle spalle. Anche la distanza tra la spiaggia e la villa mi sembrò esatta: lì dove mi aspettavo, dove sapevo essere, trovai la villa.

Era immutata: lo stesso colore di cotto delle facciate, le stesse imposte blu, ora serrate: solida come un tempo.

Il cancello principale era chiuso e tutto all’interno sembrava tacesse. Era deserta ma non mi sembrava disabitata.

Feci un giro intorno ad essa, ripensando a tutte le volte che l’avevo fatto in bicicletta con Riccardo. Rividi tutto, riascoltai le voci e i suoni di un tempo. Sentii di nuovo mia madre ridere e rividi me ridere con lei.

A quindici giorni dal mio arrivo sull’isola, non mi aveva ancora tentato l’idea di visitare il casinò. Non ero un grande appassionato di giochi a scommessa né di quel genere di ambienti. Una sera però decisi di andarvici, spinto anche dall’invito di Eddy e Louise, una coppia di affabili svizzeri che alloggiavano nel mio stesso albergo, con cui da qualche giorno avevo preso l’abitudine di pranzare. Tentai la sorte più d’una volta ma con scarsi risultati. Annoiato e scettico dopo un po’ decisi di andare a bere qualcosa fuori da lì. Sulla porta, nell’uscire, fui urtato da Miedo: camminava veloce e un po’ proteso in avanti. Mi guardò a lungo con un sorriso appena accennato sulle labbra.

Provai subito un singolare senso di attrazione nei suoi confronti. Mi incuriosiva.

Velocemente mi infilai in uno dei vicoli nei quali si aggomitola il centro storico, sgattaiolando come un fuggiasco. E di un fuggiasco conservavo il medesimo senso di incerta inquietudine. Era la stessa smania che in genere mi spinge a fare. Era eccitazione. Nella mia vita ho sempre ostentato un certo atteggiamento d’apparente indolenza, ma in realtà frutto di una ferrea propensione al raccoglimento. Ed è proprio quella sorta di stato febbrile che mi fa agire.

Nelle ore successive non feci altro che pensare a lui e la notte mi scivolò addosso prendendo lo stesso odore di quell’uomo. Andai da Miriam col desiderio di Miedo.

Il giorno seguente, durante una delle mie solite passeggiate alla ricerca di una spiaggia appartata, lo scorsi nel mentre di un tuffo. Un costume succinto lasciava libere tutte le proporzioni del suo corpo, ben in mostra e indorate dal sole. Si divertiva con slanci vivaci a giocare con l’acqua in compagnia di un amico. Mi avvicinai a loro, cercando di attirare la sua attenzione. Mi vide, mi sorrise - certamente riconoscendomi - ricambiai, mi guardò di tanto in tanto per un lasso di tempo che a me sembrò infinito e che invece quasi di colpo ad un certo punto terminò: uscì dall’acqua e seguito dall’amico, senza guardarmi neanche per un attimo, s’inerpicò per uno dei sentieri che davano all’interno e portavano alle abitazioni. In un istante sparì nella boscaglia, lasciandomi lì, bagnato e insoddisfatto.

I giorni seguenti mi videro aggirami per l’isola come un randagio a ripensare a lui. Tornai più volte nei posti dove l’avevo visto: il porto, il casinò, la spiaggia, senza mai incontrarlo.

Da quel momento l’isola di Lie mi sembrò noiosa e inutilmente lasciva.

Dopo circa una settimana di tedio in cui cominciavo ad ipotizzare l’idea di spostare le mie vacanze in una delle isole limitrofe, decisi di fare un altro giro nei dintorni della villa. Ci ero tornato diverse volte in quel mese senza mai vedere qualcuno che la abitasse. Una mattina invece la trovai finalmente aperta: imposte, finestre e vetrate spalancate, musica che proveniva dall’interno, una sdraio distesa nel giardino.

-Buongiorno!- una voce si levò verso di me dall’interno.

Era Miedo, che si staccava da una siepe e mi veniva incontro.

-Salve!- risposi, masticando un po’ d’imbarazzo - Questa villa apparteneva alla mia famiglia quando ero bambino - mi affrettai ad aggiungere.

-My father won it in a poker fifteen years ago -. Disse in uno strano inglese,

I minuti che seguirono furono tutto un pretesto per poter avvicinarci il più possibile: l’invito ad entrare e a visitare la casa rimasta peraltro identica a come la ricordavo, l’aperitivo, la chiacchierata fatua sulla vita di Lie e sugli usi e costumi dei turisti, le mie vacanze e le sue, il suo lavoro e il mio, la mia famiglia e la sua, la sua cordialità e il mio piacere nell’accoglierla. Tutto ci condusse senza troppi preamboli ad amarci lì, su quel pavimento che più volte mi aveva visto giocare con mia madre. Ora giocavo con Miedo in quel luogo che rappresentava per me qualcosa di molto simile all’idea di casa. Dopo una lieve carezza, subito accolsi il suo corpo nel mio senza trovarlo sconosciuto o estraneo, penetrando a mia volta la sua carne con un abbandono del tutto nuovo. Si appropriò di me con una forza cui non ero abituato, come scavandomi anche l’anima. Fui accompagnato in un istintivo viaggio a ritroso verso la coscienza, una intensa caduta in me.

Quella prima volta passammo insieme anche tutta la notte e il giorno seguente.

Miedo oltre che un abile amante era anche un amabile affabulatore, mi raccontò vari aneddoti della sua vita, introducendomi nel suo mondo. Mi parlò di sé: era figlio unico e unico erede del patrimonio familiare. Ad intervallare i suoi racconti erano le mie parole e i miei ricordi.

-I never knew my mother, mia mama - mi disse quando gli parlai della mia – She has never lived with us. She wasn't the wife of my father -.

E mi mostrò una foto di una bellissima donna asiatica, l’unica cosa che possedeva di lei.

-Where is she now ? – chiesi

-I don't know. I don't know much about her, except that she was the daughter of a diplomat...un ambasciadore... and she met my father on a journey, it was love between them but when I was born she went back to his country and left me here...qua a Lie

Nei giorni seguenti visitai con lui posti dell’isola che non avevo mai visto. Miedo mi era accanto come una presenza silenziosa e attenta e allo stesso tempo sfuggente e ambigua. Assomigliava molto all’isola.

E proprio come l’isola anche lui nascondeva un lato oscuro che ogni tanto affiorava. Ogni volta che mi guardava avevo come l’impressione che volesse parlarmi di qualcosa che poi desisteva dal dirmi. Avevo la netta sensazione che di me sapesse molto di più di quanto lasciasse intendere. Prolungai la mia permanenza nell’isola anche per scoprirlo. Era piuttosto difficile però screpolare la sua facciata granitica. E questo mi irritava.

Una sera mentre passeggiavamo in prossimità del porto, chiacchierando amabilmente, lo provocai baciandolo spudoratamente davanti ai passanti. Non gradì il mio slancio e visibilmente irritato mi abbandonò lì, dirigendosi verso la sua auto.

-Cos’è, il signor Miedo non gradisce l’eco dei suoi atti?- lo canzonai, in italiano questa volta, raggiungendolo.

-Non quando gli atti sono privati, private – replicò indignato, in italiano anche lui.

-O forse quando sono privati del tuo controllo – aggiunsi

Mi guardò sbalordito, con un sorriso tirato come non riconoscendomi. Forse non capì il doppio senso di “privati”, ma io credo di sì.

S’infilò in macchina e sparì.

La notte scivolò indolore e il giorno seguente iniziò con una rivelazione. Andai molto presto da Miedo per scusarmi e per preannunciargli la mia partenza. Ero stanco di Lie, del mare e anche di lui.

-Perché?-mi chiese riferendosi al mio gesto.

-I don't know. Tired, perhaps, to a situation in stasis ...I don't know....I came to this island to relax and instead I found something on which I've always been silent -.

Restava a guardarmi in silenzio.

-I get home. I will take with me more awareness. And the strange effect of having lived in this house again.And I will take everything in it. Memories, voices, meetings ..

-Would you really take with you everything that's in it? Then you should know that also contains a game of poker, played exactly thirty-six years ago. It was a long game played by my father, two British economists and an Italian ambasciadore who you should know very well

- Mio padre?

- Yes, tuo papa. Or rather, whom you have always thought was your father. The victory went to my father. The loot was very rich: a night with a woman whose my father was in love. Can you guess who she was?

- Come faccio a saperlo?... How do I know?

- Tua madre.

-

- The fruit of that night is you. You are the son of that game and of my father

-

- Fifteen years ago, the revenge: the winner was once again my father... nostro papaand this time he won the house. Now you really know everything, dear Giacomo.

Do you want to leave anyway? - E lo disse con un ghigno.

Per la prima volta in vita mia forse persi davvero il controllo.

Miedo ora giace nel giardino della villa, sotto i fiori e sotto il sole di Lie.

A volte ripenso a lui e un po' mi dispiace per quello che è successo. Ma non l'ho fatto per me, né per mio padre -che non era mio padre- ma per mia madre che nessuno di loro aveva saputo trattare meglio di un pegno di gioco.

E se qualcuno si chiedesse come mai non sono in galera, rispondo che - nel mio mondo- è stato facile dimostrare che quello straniero dalle ambigue abitudini sessuali mi aveva violentato ripetutamente e che per legittima difesa ho dovuto ucciderlo.

E adesso, che ogni cosa è al suo posto, posso finalmente riprendere la mia vita.


Tratto dalla raccolta inedita Trilogia dell'incontro

di Maria Luigia Longo