Giocavamo a raccontarci i sogni, Sam
e io, baloccandoci con le parole, lì nella sua cascina in via delle
Frottole numero 3.
Passava a prendermi tutti i giorni dopo il lavoro. Lavorava per tre
giorni a settimana in un autolavaggio di proprietà di un amico del
padre. Lui, ragazzone
biondo dal viso tondo
(così lo motteggiavo spesso io), in sella alla sua Atala
rosso fuoco arrivava sotto la mia finestra e suonava per due volte il
campanello della bici ed io, già pronto, scendevo e prendevo posto
sul sellino posteriore. Percorrevamo in pochi minuti il centro, dove
io abitavo, poi di corsa verso il lungomare, d’inverno deserto. Lo
attraversavamo tutto e, quando ci sembrava di arrivare al limite
massimo della scogliera, si allungava ancora e poi, ancora per non so
quanti chilometri, arrivava fino alla cascina di Sam, attraverso una
stradina polverosa.
Alla nostra sinistra, il mare
spumoso devastava la costa, mentre ci lasciavamo alle spalle il paese
che già cominciava ad illuminarsi. E più ci allontanavamo più la
brezza s’alzava e il mare frangeva la quiete desolata di quel lembo
d’Italia. Correva veloce, Sam sull’Atala
riverniciata da poco, mentre io, rincantucciato dietro le sue spalle,
mi riparavo dal freddo. Aveva spalle tanto larghe che per guardare
avanti dovevo sporgermi di molto e tirare fuori la testa come un
cucciolo dalla sua tana, ma lo facevo di rado e solo quando non avevo
dimenticato a casa la sciarpa.
Lungo la strada lui canticchiava
sempre e mi metteva di buon umore.
L’abbaiare festoso di
Attila, pastore maremmano perennemente incatenato davanti alla porta
d’ingresso, era il segno che eravamo arrivati.
-Se ne sta tutto il giorno
accucciato, questo grassone!- diceva sempre Sam, accarezzandolo
lungamente e arruffandogli il pelo ispido e sporco di terra. Io
rimanevo a guardarli per un po’ poi distoglievo lo sguardo, per non
turbare quel loro strano momento di intimità (non avevo mai visto
Sam tanto tenero come quando accarezzava il suo cane) o forse perché
tanta tenerezza turbava me: la dolcezza di un uomo ancora oggi un po’
m’imbarazza.
Tutt’intorno c’erano alberi di
mandarini, arance e limoni e in fondo, lontanissimo, irraggiungibile…
il mare.
Dietro, a qualche chilometro di
distanza dalla casa, nascosta anch’essa dagli alberi, s’intuiva
dallo strepito del treno l’esistenza della ferrovia: un unico
binario che in due ore e venti minuti collegava il paese al
capoluogo.
La cascina, una costruzione non
dipinta formata da appena due stanze (una per piano) collegate tra
loro da una scala interna in legno, era rimasta chiusa per anni, da
quando cioè il nonno – che se ne occupava – era morto,
precedendo di soli sei mesi la moglie, nonna Mena. Sam era molto
legato a quel luogo e adesso che era diventato più grande aveva
deciso di occuparsene. Era quieto, Sam e in quel posto lo diventava
ancora di più.
Noi ci andavamo quasi tutte le sere:
spalancavamo le finestre, tenendole aperte quell’attimo che basta
per dileguare dalla stanza quel fastidioso odore di chiuso – come
di muffa attaccata alle pareti in pietra – poi, accendevamo il
camino (io prendevo la legna accatastata nel sottoscala e Sam
l’attizzava) quindi ci mettevamo a sedere, lì vicino al fuoco.
Stavamo sempre uno di fronte all’altro. Mi guardava a stento Sam,
teneva invece lo sguardo fisso sulla legna che ardeva. Capo chino,
fumava inspirando il fumo a boccate lente, profonde…lunghe.
In genere bevevamo vino rosso.
A volte mangiavamo pane abbrustolito
condito con sale e olio d’oliva o, altre, patate cotte sotto la
cenere.
Poi all’improvviso cominciava a
parlare, sorretto da parole che sembravano giungere da lontano, come
scortato da esse. Non ho mai ben capito perché si decidesse a
parlare. Mi raccontava qualche episodio della sua infanzia, avvenuto
in quel casolare e di quando la famiglia si ritrovava lì, tutta al
completo. Parlava dei suoi nonni quando lavoravano e vivevano lì,
dei riti del lavorare la terra, delle stagioni e delle abitudini che
le accompagnavano e, in un certo senso, scandivano. E di come si
avvicendavano la preparazione del vino, dell’olio, del salame, la
raccolta degli agrumi, la vendita in paese e nei paesi limitrofi, la
preparazione delle marmellate. Diceva che quelli erano eventi precisi
della terra e che, durante ognuno di essi, il cielo si vestiva di un
colore diverso, appropriato (lui adoperò la parola giusto).
Più grande di me di appena due anni, quando parlava sembrava già
adulto, un uomo fatto
che si faceva nel momento in cui parlava. Quasi che fossero proprio
le parole e soprattutto alcune – quali terra,
cielo, rito, sangue…- a
dargli dignità di uomo, perché esse stesse depositarie di senso, di
una forza propria. Seguivo, ascoltandolo, i movimenti della linea
irregolare che gli attraversava la fronte, pareva essere congiunta –
come affratellata – alle labbra e quando queste si adoperavano in
un sorriso quella pure si tendeva, dileguandosi.
Era quieto, Sam e quando raccontava
lo era ancora di più.
Alcune
sere leggevamo qualche passo del libro di Alvaro che mi aveva
regalato mio padre, Gente
in Aspromonte,
altre invece c’intrattenevamo con qualche poeta. Albino Pierro era
il suo preferito. – Le sue parole sono come pietre – diceva.
Amavo leggere a voce alta e lui amava ascoltare, dopo commentavamo
oppure lasciavamo le idee perdersi nei pensieri. In silenzio.
Una sera anch’io ho incominciato a
fumare.
-Respira a fondo. Lungamente!
Esclama lentamente, mentre inspiri, Mamma
mia! E imparerai subito,
vedrai! – mi disse il buon Sam.
Tre colpi di tosse, una fitta nel
petto…e via! Anch’io a far parte del popolo dei fumatori!
Ai ricordi, poi, seguivano i sogni.
Nascevano da giocose associazioni
verbali, da catene di immaginifici significanti. Restavamo incatenati
alle parole per ore ed ore, baloccandoci con esse fino a notte fonda.
Il gioco voleva che a turno ognuno dicesse una parola o addirittura
una frase che per assonanza richiamasse quella precedente,
estendendone il senso o contrariandolo, secondo quello che in noi
suggeriva. Bosco,fosco,
nero, vero,
velo, fumo,
fuoco,
fioco, spento,
lento, mento,
sgomento, spavento,
scontento, argomento,
libro, storie,
favole, narrazione,
nazione, Italia,
sud, nord,
terra, zolla,
sudore, dolore,
stupore, sapore,
dolce, amaro,
aspro, selvaggio,
foraggio, coraggio,
omaggio, viaggio,
fuga…
Bosco,
nero velo
fuoco spento
spavento…
Argomento:
zolla
dolore
sapore amaro
selvaggio.
(viaggio-fuga)
Mangiare piano guidare
piano
suonare il piano cantare
applaudire lusingare
donna donna
amata
mano armata bandito
brigante rivolta
giravolta ogni volta
prima volta capovolta…
Potevamo andare avanti per ore ed
ore: interrompevamo la catena verbale solo quando una parola
suggeriva un avvenimento importante o un’emozione che subito
raccontavamo.
A volte parlava in maniera un po’
strana, ma le sue parole trovavano sempre qualche corrispondenza in
me. Intrecciava passato e presente in frasi che più che la sintassi
seguivano invece il flusso di coscienza.
-Hai mai nutrito i desideri di una
donna?- chiese, non attendendo risposta.
Era fine aprile, un
aprile di due anni prima. Il sole avanzava languido in cielo,
irretito da nuvole acquose. Minacciava pioggia da ore e dai boschi
intorno s’alzava un odore pungente di terra umida. L’ampia piazza
quadrata era gremita di gente: era domenica e gli anziani in gruppi
discutevano di politica…
La pioggia non arrivò, arrivò
invece lei: annunciata da un sorriso sfrontato incorniciato da labbra
carnose e sorretta da gambe che avanzavano sicure. Era bella. A lui
mancarono parole e per un attimo si sorprese a sorridere fuori dai
denti. Qualcuno li presentò e divennero subito amanti. Era bello
accarezzarle i capelli – disse – un rapimento baciarla…
Anna fu il suo primo amore.
Era quieto, Sam anche quando parlava
del futuro. Io no. Lui sapeva già tutto: voleva sposarsi e avere dei
figli, un cane; forse vivere lì.
Io di me non sapevo ancora niente.
Mi pareva di vivere già solo quando Sam raccontava qualcosa nel suo
modo sognante e io accavallavo mie parole alle sue.
Giocavamo così, Sam e io.
Quando, poi, tutti i
discorsi si compivano, placavamo gli animi, spegnevamo il fuoco e
tornavamo a casa, ciascuno con le proprie amenità. E senza più
parole.
Ora sono
qui, nella capitale, a cercare da anni di far quadrare i conti di
qualcun altro, ma ripenso spesso al buon Sam e al suo lieve modo di
porsi, al suo guardare nelle
cose e al suo discreto porgere l’orecchio al mondo. Sèguita a
crescere in me Sam, affabulando dolcemente.
(Maria Luigia Longo, da Trilogia dell'incontro ed altre storie e classificato al terzo posto del
concorso Luigi Gullo, un racconto inedito per il sud)