mercoledì 31 ottobre 2012

Forse avanzando


 
 
 
Forse avanzando nella nebbia degli anni,
a tratti più densa a tratti più rada, vedrò
la casa, quella casa, davanti a me e il vuoto
dietro, scartocciato in un incanto.


Poi come dapprima in uno sciame di fondo,
s'affolleranno visi voci movenze e poi
come a rappresentanza del presente.
Ma sarà tardi; e resterò in piedi a tenere
in equilibrio, col mio segreto dentro,
le parole che parlano il mio oggi.
 
[Maria Luigia Longo, Forse avanzando, da Rime private_Poesiesparse/Cantiere]
 
 

lunedì 22 ottobre 2012

Restano di quegl'anni




Restano di quegl'anni l'odore del fumo
delle stoppie bruciate e al mattino il pane
immerso nel caffellatte, l'acqua sul fuoco
il grembiule bagnato, lo squarcio nelle calze di nylon
e la notte ad attendere l'alba per uscire tra i filari
e cercare dietro le case vecchie il nuovo.
 

Dovevamo crescere con l'idea che nel buio
si cerca l'inizio si cerca la luce e seduti si resta
a parlare a scherzare e a fare domande persino su dio.

[Maria Luigia Longo, Restano di quegl'anni, da Rime private_Poesiesparse/Cantiere]
 

giovedì 18 ottobre 2012

La crepa.





La crepa si muove dall'ultimo piano al primo
e circonda la casa fino al filare di dietro.
Fa il giro intorno e si vede anche dalla finestra
della signora Angelina, di fronte.
La casa è quella dei miei nonni
e sarebbe rimasta così per sempre,
con il cancello grigio dell'ingresso i panni
stesi mossi dal vento le sedie davanti alla porta
per chi passa a fare due parole.
 


La finestrella piccola del bagno con la sua grata 
dava sulla soglia d'ingresso e noi bambini,
da bambini, spiavamo fuori per sentire i 
discorsi dei grandi, i fatti, le voci e la notte.
Mio nonno era appena morto quando la crepa
ha iniziato a muoversi e con lei le estati
i giorni le luci le rondini e i ricordi.


Mia nonna ha provato a sopravvivere al lutto
e a tenere insieme la casa le voci i figli
ma l'ordine è arrivato indifferibile
: è sfratto
e ognuno è andato a tenere insieme le voci
e i ricordi altrove, ognuno.


Nessuno ha capito che a volte altrove   
si muore e che andava tenuto lo sguardo
fisso, ferma la casa.
 

Mi ritrovo spesso qui: la vita e lo sguardo
a guardare nel buio a tenere in piedi la casa.
E ritramo le voci, i visi, le mani seduti
come quando era l'ora di trovarsi
tutti davanti al camino, con le voci che uniscono
le pignatte i fagioli
e le storie che nascono per custodire.
 
                       [Maria Luigia Longo, La crepa, da Rime private_Poesiesparse/Cantiere]
 

martedì 16 ottobre 2012

Luna e antenna.

 
 
 
Luna e antenna
come tante altre volte
luna e antenna.
Vedi come si cercano : con
ostentazione,
come se una fosse lei
l’unica vera nostra compassione,
come se l’altra lo credesse,
lo credesse
che una luna e un’antenna condividono per noi
la musica dei giovani
la pace degli ammalati
il silenzio dei morti
un cielo docile che non si muove
un occhio attento senza retina
una zanzara uccisa con il nostro sangue
e l’amore e il dolore che dobbiamo
al nostro piccolo museo.
(…)
 
 
(Stefano Dal Bianco, sezione “Una vita nuova" pag. 16)

Parigi, 17 febbraio 1903.



Egregio signore,
la sua lettera mi è giunta solo alcuni giorni fa. Voglio ringraziarla per la sua grande e cara fiducia. Poco altro posso. Non posso addentrarmi nella natura dei suoi versi, poiché ogni intenzione critica è troppo lungi da me. Nulla può toccare tanto poco un’opera d’arte quanto un commento critico: se ne ottengono sempre più o meno felici malintesi. Le cose non si possono tutte afferrare e dire come d’abitudine ci vorrebbero far credere; la maggior parte degli eventi sono indicibili, si compiono in uno spazio inaccesso alla parola, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, esistenze piene di mistero la cui vita, accanto all’effimera nostra, perdura.
Ciò premesso, mi sia solo consentito dirle che i suoi versi, pur non avendo una natura loro propria, hanno però sommessi e velati germi di una personalità. Con più chiarezza lo avverto nell’ultima poesia, La mia anima. Qui, qualcosa di proprio vuole farsi metodo e parola. E nella bella poesia A Leopardi affiora forse una certa affinità con quel grande solitario. Eppure quei poemi sono ancora privi di una loro autonoma fisionomia, anche l’ultimo e quello a Leopardi. La sua gentile lettera che li accompagnava; non manca di spiegarmi varie pecche che ho percepito nel leggere i suoi versi, senza però potervi dare un nome.
Lei domanda se i suoi versi siano buoni. Lo domanda a me. Prima lo ha domandato ad altri. Li invia alle riviste. Li confronta con altre poesie, e si allarma se certe redazioni rifiutano le sue prove. Ora, poiché mi ha autorizzato a consigliarla, le chiedo di rinunciare a tutto questo. Lei guarda all’esterno, ed è appunto questo che ora non dovrebbe fare.Nessuno può darle consiglio o aiuto, nessuno. Non v’è che un mezzo. Guardi dentro di sé. Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel punto più profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità. La sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questa urgenza. Allora si avvicini alla natura. Allora cerchi, come un primo uomo, di dire ciò che vede e vive e ama e perde. Non scriva poesie d’amore; eviti dapprima quelle forme che sono troppo correnti e comuni: sono le più difficili, poiché serve una forza grande e già matura per dare un proprio contributo dove sono in abbondanza tradizioni buone e in parte ottime. Perciò rifugga dai motivi più diffusi verso quelli che le offre il suo stesso quotidiano; descriva le sue tristezze e aspirazioni, i pensieri effimeri e la fede in una bellezza qualunque; descriva tutto questo con intima, sommessa, umile sincerità, e usi, per esprimersi, le cose che le stanno intorno, le immagini dei suoi sogni e gli oggetti del suo ricordo. Se la sua giornata le sembra povera, non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà, né vi sono luoghi indifferenti o miseri. E se anche si trovasse in una prigione; le cui pareti non lasciassero trapelare ai suoi sensi i rumori del mondo, non le, rimarrebbe forse la sua infanzia, quella ricchezza squisita, regale, quello scrigno di ricordi? Rivolga lì la sua attenzione. Cerchi di far emergere le sensazioni sommerse di quell’ampio passato; la sua personalità si rinsalderà, la sua solitudine si farà più ampia e diverrà una casa al crepuscolo, chiusa al lontano rumore degli altri. E se da questa introversione, da questo immergersi nel proprio mondo sorgono versi, allora non le verrà in mente di chiedere a qualcuno se siano buoni versi. Né tenterà di interessare le riviste a quei lavori: poiché in essi lei vedrà il suo caro e naturale possesso, una scheggia e un suono della sua vita. Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità. È questa natura della sua origine a giudicarla: altro non v’è. E dunque, egregio signore, non avevo da darle altro consiglio che questo: guardi dentro di sé, esplori le profondità da cui scaturisce la sua vita; a quella fonte troverà risposta alla domanda se lei debba creare. La accetti come suona, senza stare a interpretarla. Si vedrà forse che è chiamato a essere artista. Allora prenda
su di sé la sorte, e la sopporti, ne porti il peso e la grandezza, senza mai ambire al premio che può venire dall’esterno. Poiché chi crea deve essere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura sua compagna.
Forse, però, anche dopo questa discesa nel suo intimo e nella sua solitudine, dovrà rinunciare a diventare un poeta (basta, come dicevo, sentire che senza scrivere si potrebbe vivere, perché non sia concesso). Ma anche allora, l’introversione che le chiedo non sarà stata vana. La sua vita in ogni caso troverà, da quel momento, proprie vie; e che possano essere buone, ricche e ampie, questo io le auguro più di quanto sappia dire.
Cos’altro dirle? Mi pare tutto equamente rilevato; e poi, in fondo, volevo solo consigliarla di seguire silenzioso e serio il suo sviluppo; non lo può turbare più violentemente che guardando all’esterno, e dall’esterno aspettando risposta a domande cui solo il sentimento suo più intimo, nella sua ora più quieta, può forse rispondere.
Mi ha rallegrato trovare nel suo scritto il nome del professor Horacek; serbo per quell’amabile studioso grande stima, e una gratitudine che non teme gli anni. Voglia, la prego, dirgli di questo mio sentimento; è molto buono a ricordarsi ancora di me, e lo so apprezzare.
Le restituisco inoltre i versi che gentilmente mi ha voluto confidare. E la ringrazio ancora per la grandezza e la cordialità della sua fiducia, di cui con questa risposta sincera, e data in buona fede, ho cercato di rendermi un po’ più degno di quanto io, un estraneo, non sia.

Suo devotissimo
Rainer Maria Rilke

(Da: Lettere a un giovane poeta Rainer Maria Rilke (Mondadori 1994)


Torino. Estate 1984.



Mia madre deve andare al mercato e stamattina ci lascia riposare. Noi bambine dormiamo in soggiorno perché la casa è molto piccola. Apro gli occhi e mi accorgo che non sono sola perché sento il respiro di mia sorella che dorme accanto a me. Non mi muovo e resto a guardare nella penombra gli oggetti nella stanza. I raggi del sole filtrano dalle imposte di legno marrone della portafinestra che dà sul terrazzo. Fa caldo, ma mi piace sentire sulle gambe nude il lenzuolo morbido. Improvvisamente realizzo che mia madre non c'è e che siamo sole.
Guardo verso le imposte e vedo che sono chiuse con il solito catenaccio nero che i miei usano quando

ci lasciano da sole in casa. Ho un senso di smarrimento e mi sento in trappola. All'improvviso arriva da una radio lontana la voce di Alice che canta I treni di Touzer. E' dolce e mi rassicura. Mia madre le somiglia molto e vorrei che avesse anche la sua stessa voce. 
(Ricordi in forma di narrazione)

Meditazione

 


Sfuma il turchino in un azzurro tutto
stelle. lo siedo alla finestra e guardo.
Guardo e ascolto; però chel in questo è tutta
la mia forza: guardare ed ascoltare.
La luna non è nata, nascerà
sul tardi. Sono aperte oggi le molte
finestre delle grandi case folte:
d'umile gente. E in me una verità
nasce, dolce a ridirsi, chi darà
gioia a chi ascolta, gioia da ogni cosa.
Poco invero tu stimi, uomo, le cose.
Il tuo lume, il tuo letto, la tua casa
sembrano poco a te, sembrano cose
da nulla, poi che tu nascevi e già
era il fuoco, la coltre era, la cuna
per dormire, per addormirti il canto.
Ma che strazio sofferto fu, e per quanto
tempo dagli avi tuoi, prima che una
sorgesse, tra le belve, una capanna,
che il suono divenisse ninna-nanna
per il bimbo, parola pel compagn.
Che millenni di strazi, uomo, per una
delle piccole cose che tu prendi,
usi e non guardi; e il cuore non ti trema,
non ti trema la mano;
ti sembrerebbe vano
ripensare ch'è poco
quanto all'immondezzaio oggi tu scagli;
ma che gemma non c'è che per te valga
quanto valso sarebbe un dl quel poco
La luna è nata che le stelle in cielo
declinano. Là un giallo
lume si è spento, fumido. Suonò
il tocco. Un gallo
cantò, altri risposero qua e là.

(Meditazione, Umberto Saba, Canzoniere)